"Negli anni Sessanta, davanti a un povero ci
si chiedeva “quale contesto lo ha ridotto così?”. Oggi la prima reazione è “che
cosa ha combinato per ridursi così”. È un cambiamento di senso comune frutto di
30 anni di cultura neoliberista. Uno dei nostri obiettivi è cambiare il senso
comune."
“Lavoro e giovani: ai partiti servono
proposte radicali”
Fabrizio Barca - L’ex ministro della
Coesione ha lavorato alle proposte del Forum diseguaglianze per un programma
drastico, ma realizzabile
“È il momento di proposte radicali, che
affrontano la radice delle disuguaglianze e redistribuiscono potere. Non basta
redistribuire le risorse a valle”. Fabrizio Barca, economista, ex ministro
della Coesione territoriale, ora membro della Fondazione Basso, è uno dei
promotori del Forum Disuguaglianze
Diversità che nei giorni scorsi, dopo oltre un anno di lavoro, ha
presentato “15 proposte per la giustizia sociale”. Non il solito rapporto di
esperti, ma l’esito di un lungo percorso che ha coinvolto organizzazioni come
Caritas e Cittadinanzattiva, Legambiente, Uisp. Dietro queste idee così
drastiche, insomma, c’è un pezzo consistente di società civile. Per questo Pd e
Movimento 5 Stelle (ma anche Lega e Fratelli d’Italia) stanno seguendo con interesse
il dibattito che hanno innescato. In particolare è sensibile il nuovo
segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che da anni stima Barca.
Fabrizio Barca, perché la disuguaglianze è
dannosa?
Perché è ingiusta. Quando raggiunge le
forme e i livelli che ha oggi, disgrega la società perché autorizza qualunque
comportamento individuale: posso fare qualsiasi cosa perché altri hanno fatto
peggio di me.
Di solito si dice: prima aumentiamo la
torta poi pensiamo alle dimensioni delle fette. Voi proponete invece di
cambiare il processo in cui si accumula ricchezza.
E in quel processo bisogna dare potere a
chi non ce l’ha: se le donne sono solo il 15 per cento dei team che scrivono
gli algoritmi, a me non sta bene, non basta un codice etico. La responsabilità
sociale dell’impresa è irrilevante se i cittadini del territorio non hanno
voce. Se all’Ilva ci fosse stato dall’inizio un consiglio del lavoro dove
siedono lavoratori e cittadini, avremmo avuto gli stessi problemi oggi a
Taranto?
Cos’è il “modello Ginevra” che auspicate?
L’espressione viene da un paper di
Francesco Giffoni e Massimo Florio: in Europa abbiamo mille infrastrutture di
ricerca pubblica, che gestiscono miliardi, con grande autonomia. Il loro
successo dimostra che le imprese pubbliche possono produrre risultati
straordinari senza avere il profitto come obiettivo. Ma producono open science,
cui tutti possono attingere, ma soltanto grandi imprese che hanno fatto enormi
investimenti possono sfruttarlo. Dobbiamo redistribuire quel potere che
consente a Mark Zuckerberg di non presentarsi in Parlamento quando uno Stato
indaga su Facebook. Costruiamo degli hub di ricerca pubblico-privati, con regia
pubblica, che facciano anche la parte a valle della ricerca, fino alla
commercializzazione.
Serve una Facebook pubblica?
Invece di stroncare i privati con la
regolazione, lo Stato può competere con loro. Lo aveva capito Enrico Mattei che
con l’Eni sfidò le sette sorelle del petrolio. Oggi ci sono le sette sorelle
del digitale.
Lo Stato deve riprendere anche il controllo
dei dati dei cittadini?
Abbiamo bisogno che nei luoghi in cui si
concentra l’utilizzo degli algoritmi, le città, vengano costruite piattaforme
collettive non private dove i cittadini riversano i dati avendo voce in
capitolo su come vengono usati. Se i dati sulla nostra mobilità vengono
regalati alla singola impresa che vince la gara, questa sceglierà percorsi che
massimizzano il profitto a comportamenti invariati e con quei dati diverrà
monopolista: se c’è poco traffico dalle periferie, l’algoritmo reagirà
riducendo le corse dei mezzi pubblici verso la periferia. E i problemi
peggioreranno. Se prendo gli stessi dati e li metto a disposizione di tutti,
piccole imprese creative possono elaborare idee tra loro in concorrenza che
tengono conto delle proposte dei cittadini e secondo una strategia collettiva e
monitorabile. Non è un’utopia, sta già accadendo a Barcellona. Anche Milano e
Bologna vanno in quella direzione.
Un partito può permettersi di proporre
nuove tasse come quella che auspicate
sulle successioni?
Oggi pagano la tassa di successione circa
108.000 persone l’anno. Con lo schema che proponiamo noi, nella ipotesi più
alta la pagano soltanto 30.000. Si toglierebbe qualunque tassa al ceto medio.
La franchigia altissima e la rapida ascesa delle aliquote garantiscono quattro
volte più gettito pesando soltanto sul 25 per cento dei contribuenti attuali.
Se non si rivalutano i cespiti patrimoniali il gettito raddoppia, invece di
quadruplicare.
Politicamente è fattibile?
Certo, perché quelle risorse verrebbero
usate per finanziare l’“eredità universale”, cioè 15.000 euro da assegnare a
ogni cittadino che compie 18 anni. Avremmo da una parte 590.000 giovani
beneficiari l’anno, 70.000 persone che non pagherebbero più la tassa di
successione e circa 10.000 persone che invece dovrebbero pagare più tasse. Dal
punto di vista politico dovrebbe essere ovvio cosa fare.
Già per il più modesto bonus 18enni si è
obiettato che è troppo per qualcuno, troppo poco per altri. E voi volete dare
15.000 euro a ogni 18enne?
15.000 euro sono tanti, possono fare la
differenza. Devono andare a tutti perché anche molti ragazzi benestanti si
trovano condizionati da una famiglia che prende decisioni per loro. La
necessità della libertà c’è per chiunque. È evidente che ci sarà qualcuno che
la userà male. Ma le esperienze che ci sono nel mondo suggeriscono che sono
pochissimi quelli che sprecano davvero l’“eredità universale”. Lasciare piena
libertà di utilizzo dei soldi non significa però abbandonare i ragazzi a loro
stessi.
Anche il reddito di cittadinanza è partito
universale e incondizionato e alla fine i beneficiari devono rispettare tanti
paletti.
C’è una differenza radicale: l’eredità
universale è una volta sola nella vita e per tutti, quindi molto più semplice
da gestire e responsabilizzante per chi la riceve. L’Alleanza contro la povertà
ha imposto il principio che al povero devi dare risorse anche per rimetterlo in
condizione di proporsi, di fare progetti. Aver portato l’aiuto a un livello
dignitoso è fondamentale. I Cinque Stelle ci hanno messo i soldi, ma sono
caduti nella trappola del divano: si sono fatti prendere dall’ansia dei paletti
e dall’idea che il reddito di cittadinanza dovrebbe creare lavoro, cosa che può
fare solo in modo indiretto.
Si è diffusa però una diffidenza per
trasferimenti universali e senza condizioni, anche se a favore dei più deboli.