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domenica 31 marzo 2019

INTERVISTA A FABRIZIO BARCA


"Negli anni Sessanta, davanti a un povero ci si chiedeva “quale contesto lo ha ridotto così?”. Oggi la prima reazione è “che cosa ha combinato per ridursi così”. È un cambiamento di senso comune frutto di 30 anni di cultura neoliberista. Uno dei nostri obiettivi è cambiare il senso comune."




“Lavoro e giovani: ai partiti servono proposte radicali”
Fabrizio Barca - L’ex ministro della Coesione ha lavorato alle proposte del Forum diseguaglianze per un programma drastico, ma realizzabile

“È il momento di proposte radicali, che affrontano la radice delle disuguaglianze e redistribuiscono potere. Non basta redistribuire le risorse a valle”. Fabrizio Barca, economista, ex ministro della Coesione territoriale, ora membro della Fondazione Basso, è uno dei promotori del Forum Disuguaglianze Diversità che nei giorni scorsi, dopo oltre un anno di lavoro, ha presentato “15 proposte per la giustizia sociale”. Non il solito rapporto di esperti, ma l’esito di un lungo percorso che ha coinvolto organizzazioni come Caritas e Cittadinanzattiva, Legambiente, Uisp. Dietro queste idee così drastiche, insomma, c’è un pezzo consistente di società civile. Per questo Pd e Movimento 5 Stelle (ma anche Lega e Fratelli d’Italia) stanno seguendo con interesse il dibattito che hanno innescato. In particolare è sensibile il nuovo segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che da anni stima Barca.

Fabrizio Barca, perché la disuguaglianze è dannosa?
Perché è ingiusta. Quando raggiunge le forme e i livelli che ha oggi, disgrega la società perché autorizza qualunque comportamento individuale: posso fare qualsiasi cosa perché altri hanno fatto peggio di me.

Di solito si dice: prima aumentiamo la torta poi pensiamo alle dimensioni delle fette. Voi proponete invece di cambiare il processo in cui si accumula ricchezza. 

E in quel processo bisogna dare potere a chi non ce l’ha: se le donne sono solo il 15 per cento dei team che scrivono gli algoritmi, a me non sta bene, non basta un codice etico. La responsabilità sociale dell’impresa è irrilevante se i cittadini del territorio non hanno voce. Se all’Ilva ci fosse stato dall’inizio un consiglio del lavoro dove siedono lavoratori e cittadini, avremmo avuto gli stessi problemi oggi a Taranto?

Cos’è il “modello Ginevra” che auspicate? 

L’espressione viene da un paper di Francesco Giffoni e Massimo Florio: in Europa abbiamo mille infrastrutture di ricerca pubblica, che gestiscono miliardi, con grande autonomia. Il loro successo dimostra che le imprese pubbliche possono produrre risultati straordinari senza avere il profitto come obiettivo. Ma producono open science, cui tutti possono attingere, ma soltanto grandi imprese che hanno fatto enormi investimenti possono sfruttarlo. Dobbiamo redistribuire quel potere che consente a Mark Zuckerberg di non presentarsi in Parlamento quando uno Stato indaga su Facebook. Costruiamo degli hub di ricerca pubblico-privati, con regia pubblica, che facciano anche la parte a valle della ricerca, fino alla commercializzazione.

Serve una Facebook pubblica?

Invece di stroncare i privati con la regolazione, lo Stato può competere con loro. Lo aveva capito Enrico Mattei che con l’Eni sfidò le sette sorelle del petrolio. Oggi ci sono le sette sorelle del digitale.

Lo Stato deve riprendere anche il controllo dei dati dei cittadini?

Abbiamo bisogno che nei luoghi in cui si concentra l’utilizzo degli algoritmi, le città, vengano costruite piattaforme collettive non private dove i cittadini riversano i dati avendo voce in capitolo su come vengono usati. Se i dati sulla nostra mobilità vengono regalati alla singola impresa che vince la gara, questa sceglierà percorsi che massimizzano il profitto a comportamenti invariati e con quei dati diverrà monopolista: se c’è poco traffico dalle periferie, l’algoritmo reagirà riducendo le corse dei mezzi pubblici verso la periferia. E i problemi peggioreranno. Se prendo gli stessi dati e li metto a disposizione di tutti, piccole imprese creative possono elaborare idee tra loro in concorrenza che tengono conto delle proposte dei cittadini e secondo una strategia collettiva e monitorabile. Non è un’utopia, sta già accadendo a Barcellona. Anche Milano e Bologna vanno in quella direzione.

Un partito può permettersi di proporre nuove tasse come quella che auspicate 
sulle successioni?

Oggi pagano la tassa di successione circa 108.000 persone l’anno. Con lo schema che proponiamo noi, nella ipotesi più alta la pagano soltanto 30.000. Si toglierebbe qualunque tassa al ceto medio. La franchigia altissima e la rapida ascesa delle aliquote garantiscono quattro volte più gettito pesando soltanto sul 25 per cento dei contribuenti attuali. Se non si rivalutano i cespiti patrimoniali il gettito raddoppia, invece di quadruplicare.

Politicamente è fattibile? 

Certo, perché quelle risorse verrebbero usate per finanziare l’“eredità universale”, cioè 15.000 euro da assegnare a ogni cittadino che compie 18 anni. Avremmo da una parte 590.000 giovani beneficiari l’anno, 70.000 persone che non pagherebbero più la tassa di successione e circa 10.000 persone che invece dovrebbero pagare più tasse. Dal punto di vista politico dovrebbe essere ovvio cosa fare.

Già per il più modesto bonus 18enni si è obiettato che è troppo per qualcuno, troppo poco per altri. E voi volete dare 15.000 euro a ogni 18enne? 

15.000 euro sono tanti, possono fare la differenza. Devono andare a tutti perché anche molti ragazzi benestanti si trovano condizionati da una famiglia che prende decisioni per loro. La necessità della libertà c’è per chiunque. È evidente che ci sarà qualcuno che la userà male. Ma le esperienze che ci sono nel mondo suggeriscono che sono pochissimi quelli che sprecano davvero l’“eredità universale”. Lasciare piena libertà di utilizzo dei soldi non significa però abbandonare i ragazzi a loro stessi.

Anche il reddito di cittadinanza è partito universale e incondizionato e alla fine i beneficiari devono rispettare tanti paletti. 

C’è una differenza radicale: l’eredità universale è una volta sola nella vita e per tutti, quindi molto più semplice da gestire e responsabilizzante per chi la riceve. L’Alleanza contro la povertà ha imposto il principio che al povero devi dare risorse anche per rimetterlo in condizione di proporsi, di fare progetti. Aver portato l’aiuto a un livello dignitoso è fondamentale. I Cinque Stelle ci hanno messo i soldi, ma sono caduti nella trappola del divano: si sono fatti prendere dall’ansia dei paletti e dall’idea che il reddito di cittadinanza dovrebbe creare lavoro, cosa che può fare solo in modo indiretto.

Si è diffusa però una diffidenza per trasferimenti universali e senza condizioni, anche se a favore dei più deboli. 



di Stefano Feltri | 30 Marzo 2019

sabato 30 marzo 2019

PFAS. ZAIA: “CHI INQUINA DEVE PAGARE”





E, AGGIUNGIAMO NOI: “ANCHE CHI HA PERMESSO ALLA MITENI DI INQUINARE DEVE PAGARE”

Rispondendo all’intervista fatta a Zaia dal Quotidiano Sanità.it riteniamo che Zaia sia l’ultima persona che abbia diritto di parlare quando i cittadini, proprio a causa dell’insipienza e complicità dei governi regionali, retti da sempre da Lega e centrodestra, hanno sofferto per decenni sulla propria pelle i danni di un inquinamento tollerato e autorizzato.

Evidenziamo una serie di dichiarazioni non vere con cui Zaia si attribuisce meriti che non ha e cerca di evitare le severissime critiche per il modo approssimativo e colposamente intempestivo con cui la Regione Veneto si è mossa in merito all’inquinamento da PFAS da parte della Miteni. 


Dal 1999 il Ministero dell’ambiente sollecitava, anche per conto dell’UE una indagine sulla presenza di PFAS nel territorio regionale. I solleciti sono continuati nel corso di 14 anni fino a quando, essendo stata individuata dall’Istituto Superiore di Sanità la fonte dell’inquinamento nella Miteni di Trissino, non era più possibile tergiversare e la Regione è stata costretta a incaricare ufficialmente l’ARPAV a individuare i livelli di inquinamento del territorio che apparvero nella loro grandezza, investendo ben tre province.

 Intervento quindi colposamente tardivo e tale da avere determinato, nei lunghi anni trascorsi, la contaminazione di migliaia di persone, oltre che l’estensione della stessa a gran parte del territorio. 
Quattordici anni persi.

Zaia dichiara di avere imposto il limite zero PFAS ma non è vero. Il suo decreto del 2017 pone il livello di performance (così viene chiamato) a 390 nanogrammi totali di PFAS per litro, livello ben lontano dallo zero sbandierato dal presedente Regionale. 



Non vi è alcuna pubblicazione scientifica a sostegno della tesi per cui tali livelli di contaminazione garantiscano dai rischi determinati dall’ingestione di PFAS.



Malgrado ciò la Regione, cioè Zaia, si è ben guardata dal segnalare i rischi che i cittadini avrebbero potuto correre bevendo l’acqua del presidente

Eppure l’applicazione del PRINCIPIO DI PRECAUZIONE è uno dei doveri da parte di chi amministra e governa.

Come si legge nel rapporto dei carabinieri del NOE, la Regione e la Provincia erano al corrente dell’inquinamento della Miteni fin dai primi anni del 2000 ma non sono intervenute.



 Noi abbiamo trasmesso una mole importante di dati. Sono gli studi fatti dall’Ecodeco nel 1990, che sono stati poi ripresi dalla Erm Italia di Milano, che ha fatto gli studi nel 1996, nel 1998 (anche se non l’abbiamo ancora reperito) e nel 2004. Nel 2004 consiglia alla società, visto l’inquinamento di falda, di installare una barriera idraulica, che è stata installata l’anno dopo, nel 2005. Nel 2008 fanno il monitoraggio, vedono che la barriera idraulica non è sufficiente e raccomandano l’aggiunta di due nuovi pozzi, che verranno messi l’anno dopo, nel 2009.

In tutti questi studi, dove non c’era solo l’analisi di falda, ma c’era anche il campionamento di terreni con tanto di book fotografico, in tutta questa mole di dati in realtà non vedo traccia di un’analisi, cioè non c’è scritto nelle conferenze di servizi.”      
                    
Erano stati segnalati allo SPISAL i gravi danni che i perfluorati provocavano agli operai della Miteni ma la Regione non è intervenuta.

Una indagine dell’Istituto Superiore di Sanità nel 2016 ha analizzato pozzi e prodotti agro alimentari della Zona Rossa, trovando altissimi livelli di contaminazione da PFAS soprattutto negli allevamenti di maiali, ma anche nelle uova, nei polli e nei bovini.  
 Il Dipartimento di prevenzione non ha impedito che tali alimenti andassero nel mercato e diffondeva in merito comunicati tranquillizzanti. 

Peggio, pur essendo nel 2014 al corrente del fatto che la Miteni fosse la prima responsabile del disastro ambientale, autorizzarono la stessa a trattare tonnellate di rifiuti di perfluorati prodotti dalla ditta olandese di proprietà della Dupont. 



Dal trattamento dei suddetti rifiuti la Miteni ricavava il 18% di Gen X che rispediva in Olanda, trattenendo il restante ammasso di rifiuti tossici di cui non si sa che fine abbia fatto. (Da qui la lettera a Zaia del Governo Olandese che allertava la Regione Veneto su un possibile traffico di rifiuti pericolosi).

Per quanto riguarda la salute, solo alla fine del 2016 viene pubblicata la relazione della commissione PFAS a nome del direttore sanità della Regione dott. Mantoan nella quale vengono elencati rischi e dati epidemiologici raccapriccianti riguardanti il Veneto, confermati successivamente dagli studi del prof. Foresta.
Altri tre anni perduti per l’attuazione di una concreta prevenzione. 


La Miteni, come migliaia di aziende venete, si trova sulla parte più delicata del sistema idrogeologico della regione cioè nella ricarica delle falde cioè un terreno composto da strati profondi di sabbie e ghiaie che consentono all’acqua superficiale di raggiungere le falde profondefiltrandola.

         La Regione non ha mai fatto un piano per la difesa delle risorse idriche che prenda in considerazione la salvaguardia delle ricariche di falda. 
La maggior parte di quello che era il ricchissimo patrimonio di acque sotterranee del Veneto, il più ricco d’Italia, è in massima parte inutilizzabile a causa dell’inquinamento provocato dalla insensata gestione della politica industriale.

 Siamo alla fine della festa e la siccità è alle porte. 




 Potremmo continuare a lungo a parlare delle gravissime inadempienze del presidente Zaia. Diciamo solo, per concludere, che, pur essendo chiusa la Miteni, attualmente le aziende del Veneto acquistano circa 100 tonnellate annue di prodotti con perfluorati che, dopo l’uso, vengono rilasciati nei depuratori, notoriamente inidonei a trattenerli, e quindi nei fiumi, nelle rogge e nei campi della bassa pianura veneta. 

Ha poco di che vantarsi e indignarsi il presidente che ritengo co-responsabile del disastro ambientale che non è una emergenza, come lui afferma, ma un fenomeno che dura da circa sessant’anni, incontrastato e connaturato alla mentalità di quanti hanno visto nel territorio solo l’occasione per estrarre valore a qualunque costo, provocandone la distruzione progressiva con le ricadute del disastro annunciato sulle persone e sull’ambiente. 


Giovanni Fazio