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sabato 22 settembre 2018

PFAS : NUOVE PROVE SCIENTIFICHE DALL’AMERICA



L'esposizione ai PFAS comporta «inequivocabilmente» gravi danni ai reni.

I BAMBINI SONO I PIU’ ESPOSTI


Lo conferma uno studio pubblicato lo scorso 13 settembre sul Clinical Journal dell'American Society of Nephrology

Il professore John Stanifer della Duke University di Durham, autore della ricerca dichiara:
 «I reni sono organi molto sensibili, soprattutto quando si tratta di tossine ambientali che possono entrare nel flusso sanguigno …

Poiché così tante persone sono esposte ai prodotti chimici che rientrano nella famiglia dei PFAS e agli agenti sempre nuovi come il GenX, era per noi fondamentale comprendere il rapporta tra queste sostanze chimiche e le malattie renali.
 Ci sono diversi modi in cui queste sostanze possono causare danni ai reni ….
Per comprendere la correlazione tra i PFAS e le malattie renali abbiamo effettuato le nostre ricerche sistematicamente su pubblicazioni mediche dal 1990 al 2018: ricerche epidemiologiche, farmacocinetiche, tossicologiche, e abbiamo incluso nella ricerca dati clinici, istologici, molecolari e metabolici.
Il professore John Stanifer della Duke University di Durham
 In totale abbiamo analizzato 74 studi di cui 21 epidemiologici,13 farmacologici e 40 tossicologici.


Tre studi epidemiologici effettuati sulla popolazione dimostrano l’associazione tra esposizione ai PFAS e bassa funzione renale.
Proseguendo, in dieci studi tossicologici si sono dimostrate modificazioni istologiche a livello tubulare e cellulare provocate dall’esposizione ai PFAS;
 cinque studi farmacocinetici dimostrano che i reni sono la maggiore via di eliminazione dei PFAS.
 Infine numerosi studi dimostrano, per altre vie, che l’esposizione ai PFAS è collegata a malattie renali.
Sono ormai accertate l’associazione tra PFAS e scarsa funzionalità renale e la prevalenza di malattia renale cronica nei soggetti esposti.
Questi effetti sono sati riscontrati anche nei bambini.
Ed è particolarmente preoccupante che i bambini abbiano una maggiore esposizione a queste sostanze chimiche rispetto agli adulti.”
Concludendo “dalla ricerca si evidenzia che nel rapporto tra ambiente e malattie renali sta emergendo un crescente corpo di evidenze anche se restano ancora molte domande sul modo in cui i PFAS agiscono.”





Particolarmente penoso e ridicolo appare, dopo la lettura delle dichiarazioni del professor John Stanifer quanto pubblicato su Giornale di Vicenza giovedì 20 settembre 2018 nella rubrica “Lettere” Pagina 47:

“Il Servizio epidemiologico dell'Ulss 8 ha già affermato che gli effetti delle sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) sulla salute umana "sono poco conosciuti, ma si è visto che possono determinare delle alterazioni di tipo metabolico, se associate a scorretti stili di vita, portare allo sviluppo di malattie croniche".

Ci domandiamo se questi dottori della nostra Ulss abbiano mai letto qualcosa della letteratura internazionale dove gli effetti delle sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) sulla salute umana sono, contrariamente a quanto essi affermano, ampiamente descritti.

 Ci chiediamo anche se abbiano avuto sentore degli studi del Prof. Foresta che dimostrano il rapporto tra PFOA e i recettori del testosterone, o se siano al corrente del fatto che tale sostanza può determinare alla 11^ settimana di gravidanza gravi lesioni al feto che ne comprometterebbero lo sviluppo e l’identità sessuale. 

Dichiarano questi dottori, su un giornale ampiamente rassicurante,  che queste sostanze fanno male “se associate a scorretti stili di vita”.

Allo stesso modo ci chiediamo se il dott. Giorgio Gentilin sia al corrente dei danni renali che l’esposizione ai PFAS può arrecare a bambini.

Avete mai pensato che un bambino di 10 chili se beve un litro d’acqua in un giorno beve l’equivalente di un decimo del proprio peso corporeo? E che se un adulto di 80 chili dovesse bere in proporzione al bambino dovrebbe bere 8 litri di acqua al giorno? Non è difficile quindi capire che un bambino di dieci chili riceve, in proporzione, una dose di PFAS otto volte superiore a quella di un adulto, e questo mentre si trova nella più delicata fase del suo accrescimento.

Signor sindaco, non c’è bisogno dell’autorizzazione della ULSS 8 (che, tra l’altro abbiamo visto come la pensa, cosa sa e cosa non sa) per emettere un’ordinanza che vieti negli asili, nelle mense scolastiche e alle donne in gravidanza l’uso dell’acqua del rubinetto e rifornire di acqua veramente potabile i bambini.

 Si tratta del cosiddetto PRINCIPIO DI PRECAUZIONE EUROPEO (se lo vada a leggere) che è appunto stato fatto per situazioni simili alla nostra, in cui, sebbene l’acqua dei nostri acquedotti comunali rientri, secondo acque del Chiampo, entro i limiti di performance per i PFAS stabiliti da un decreto regionale, non vi è alcuna prova scientifica che tali limiti, come del resto i precedenti del 2015, rappresentino una garanzia rispetto ai rischi di cui sopra.




E ai genitori consiglio di non scommettere sul sindaco: nel dubbio viene prima la salute del vostro bambino.
Non stiamo chiedendo altro che acqua pulita e non inquinata!

Giovanni Fazio

venerdì 14 settembre 2018

CiLLSA: CONSEGNATE AL MINISTRO DELL’AMBIENTE SERGIO COSTA RIFLESSIONI SULLA CONTAMINAZIONE DA PFAS DI TRE PROVINCE VENETE.





Roma 11/09/2018

A pochi anni di distanza dall’apertura a Marghera della seconda zona in cui Monsanto e Sicedison avevano aperto il primo impianto per la produzione di Cvm e Pvc (materie prime per la plastica) il conte Giannino Marzotto comincia, nel giardino della sua villa, un tempo Villa delle nobili famiglie Trissino e Da Porto, gli esperimenti per produrre sostanze impermeabilizzanti per i tessuti che producevano i suoi opifici di Valdagno. Siamo nel 1960, anno in cui possiamo indicare l’inizio di questa incredibile storia che ci condurrà al più grande disastro ambientale del Veneto.



Cito il petrolchimico di Marghera, che si innesta su una zona industriale creata nel 1917 dall’imprenditore veneziano Giuseppe Volpi e il suo svilupparsi tumultuoso che lo porta a diventare uno dei più importanti poli per la produzione di materie plastiche in Europa, per descrivere un processo di industrializzazione nel Veneto, totalmente privo di quel rispetto che meritava una terra ricca di storia e di mirabili architetture, uniche al mondo, come la città di Venezia.

Questa triste eredità del recente passato ha inciso il suo marchio nella storia dello sviluppo industriale dell’intera regione.

Le classi dirigenti che ne furono i protagonisti dimostrarono di non comprendere il nesso tra industrializzazione e territorio, e questa incomprensione o malafede ci porta dritti allo scempio dei nostri giorni.

La mancanza di una visone sistemica necessaria per armonizzare, per quanto possibile, la crescita delle industrie e delle infrastrutture con le caratteristiche ambientali, culturali ed economiche è evidente già nelle modalità con cui nasceva Miteni .

Dopo i primi incidenti in villa, Giannino Marzotto, agli inizi del 1967, trasferisce la sua azienda, che nel frattempo prende il nome di Rimar, in località Colombara, a valle del comune di Trissino, accanto al torrente. La localizzazione dell’azienda dipende solo dal fatto che in quell’area i Marzotto avevano una proprietà.

 È questo l’atto fondativo della attuale Miteni.  Già nel 1970 la Rimar produce 12 tonnellate di Apo-PFOA l'anno, e nel 1973 avvia altre produzioni come i Btf-benzotrifluoruri.

Per tornare al ruolo della politica, diremo che nessun ostacolo ebbe dalle istituzioni di allora Giannino Marzotto nella scelta della localizzazione della sua azienda che pure insisteva in uno dei punti più fragili del sistema idrico del Veneto occidentale, in piena zona di ricarica di falda.

Non si tratta di una falda qualunque ma di quella che è stata definita la seconda falda in Europa, capiente, per dare un’idea, quanto il Lago di Garda.


Questa non è l’unica “disattenzione” da parte di chi ha governato il Veneto e lo governa tuttora. Lo stesso comportamento si manifesta anche nel silenzio relativo a quanto accade qualche tempo dopo, a pochi chilometri di distanza, cioè alla nascita, agli inizi degli anni ‘80 della zona industriale di Arzignano che in pochi anni diviene il più grande polo europeo della concia, industria estremamente inquinante.

Anche il distretto conciario arzignanese con il suo hinterland, gravita sopra la grande falda su un territorio caratterizzato da ghiaie e sabbie.

Non si si sono mai accorti coloro che avrebbero avuto il dovere di vigilare, che nei primi anni dello sviluppo della concia, quando ancora le fabbriche sorgevano in mezzo all’abitato, alcuni conciatori utilizzavano vecchie cave di ghiaia abbandonate per scaricarvi gli scarti delle loro lavorazioni.

Con gli anni ’80 però si volta pagina, si costruisce un mega depuratore e si cominciano a costruire le prime discariche tutto attorno.

Nessuno è intervenuto per impedire che su una zona di ricarica così delicata si scaricassero migliaia di tonnellate di rifiuti conciari, e non solo, che gravitano tuttora sull’acqua sottostante, separati solo da un piccolo strato di argilla e un telo di plastica.

Oggi siamo arrivati alla nona discarica in zona, malgrado le proteste negli anni passati di Legambiente e di alcuni abitanti del posto, miei compagni di lotta, già deceduti da tempo per tumore.

Il denaro fluiva copioso nelle viscere del distretto e il settore acquistava sempre maggiore peso politico.
Ma ciò che fluiva più copiosamente erano i reflui che uscivano dal depuratore, inondando il Rio Acquetta di liquidi non eccessivamente potabili e non in regola con le prime leggi di tutela ambientale che cominciavano a “disturbare” l’espansione delle industrie.

Ne facevano le spese gli abitanti di Lonigo, a valle del depuratore, che iniziarono una lunga stagione di proteste finché non si decise in Regione di costruire un tubo per bypassare il territorio leoniceno.

         Naturalmente l’arrivo nelle rogge dei comuni a valle del tubo (detto A.Ri.C.A. dal consorzio che ne cura la gestione) determinò uguali malumori costringendo i geniali gestori del liquido inquinante a prolungare il tubone fino a Cologna Venta dove finalmente i reflui possono gettarsi nel fiume Fratta, non prima però di essere diluiti con acque pulite derivate, con un apposito canale di nome LEB (Lessino, Euganeo, Berico), dal vicino Adige.
L’operazione fu salutata come definitivamente risolutiva del problema dei reflui conciari che viaggiavano insieme ai reflui della Miteni, provenienti dal depuratore di Trissino. (Di questa struttura trissinese si può tranquillamente dire che sia poco più di una vasca di decantazione, certamente sprovvista di filtri per i PFAS).


Sbocco del dotto A.Ri.C.A. nel fiume Fratta 


Qualcuno però fece notare che la diluizione dei reflui fognari era reato.
Il problema fu risolto ricorrendo ad una geniale modifica lessicale. Qualche mente illuminata in Regione definì col termine di “vivificazione” l’apporto di acque pulite provenienti dall’Adige, pertanto le procure di Vicenza e di Verona, rassicurate dalla nuova dizione, chiusero le indagini o forse non le aprirono nemmeno.

Fatto sta che trent’anni di reflui industriali distribuiti attraverso il Fratta – Gorzone in una delle zone più fertili del Veneto occidentale, non contribuirono certo alla salute dei cittadini né degli esseri viventi di questa zona. Non ne ricevettero beneficio nemmeno le colture di vongole della laguna veneta.



Per questo motivo nel 2005 fu siglato un patto stato-regione, con la partecipazione dei comuni interessati, dei gestori degli acquedotti e depuratori e dei rappresentanti delle industrie, finalizzato alla definitiva bonifica del fiume Fratta e di tutto il territorio.  

Tuttavia, il piano per la bonifica del Fratta Gorzone, in dieci anni, non riuscì a partorire nemmeno l’ombra di un progetto e si concluse, alla scadenza prevista, (dicembre 2015) con un nulla di fatto.

Oggi, che prodotti agricoli della “zona rossa” sono risultati da un recente monitoraggio effettuato dall’Istituto Superiore di Sanità, totalmente inzuppati dai vari PFAS, tra cui primeggiano PFOA e PFOS, la questione della depurazione delle acque del tubo A.Ri.C.A. diventa ineludibile, malgrado l’ostinato silenzio della politica, sul ruolo del comparto conciario.

Infatti, nella mappa dei comuni inquinati il nome di Arzignano non appare nemmeno, pur essendo il più vicino alla Miteni (dopo Trissino ovviamente) ed essendo, al contempo comune inquinato e inquinante.

 È arcinoto infatti che molte industrie delle pelli usano prodotti contenenti PFAS o derivati per impermeabilizzarle.
La politica regionale e locale è stata molto attenta a non coinvolgere mai il distretto conciario come co-responsabile dell’inquinamento del territorio di tre province.
 Adesso arriva dall’EUROPA il PIANO REACH, finalizzato alla individuazione nelle attività industriali dell’uso di sostanze chimiche dannose ai lavoratori, ai cittadini e all’ambiente.
 Si tratta di un piano ambizioso con cui in Europa si tenta di regolamentare o vietare tante sostanze chimiche responsabili di un rapido degrado dell’ambiente e considerate pericolose per la stessa sopravvivenza della specie umana. 
La Regione Veneto deve giocoforza aderire. Questa è l’intestazione della delibera regionale che viene qui riportata di seguito:
Piano Regionale di Controllo ufficiale REACH – Anno 2018” (PRC 2018) in ambito regionale veneto  attuato, nel rispetto del Piano Nazionale delle attività di controllo sui prodotti chimici - anno 2018” (PNC 2018), da parte delle Aziende ULSS e dell’ARPAV competenti per territorio, attraverso un coordinamento con la Direzione Regionale Prevenzione, Sicurezza Alimentare e Veterinaria, che fornirà, in ordine all’effettivo svolgimento dei controlli, specifiche indicazioni operative per l’effettuazione dell’attività di vigilanza.”
Su un’area che conta circa 600 aziende, quale è quella del distretto conciario di Arzignano, la Regione, in riferimento alla problematica PFAS, ha incluso nel suo piano di controllo per l’anno 2018 due controlli REACH nella ULSS 8, da effettuarsi secondo la metodologia REF.

Tralasciando momentaneamente le vicende del tubo A.Ri.C.A. e dell’inquinamento alimentare emerso dal monitoraggio dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità), torniamo alla mancanza di visione sistemica delle problematiche ambientali nella gestione della politica regionale e veniamo al punto in cui l’inquinamento della Miteni si incrocia con la costruzione della Superstrada Pedemontana.


Scavi per la Pedemontana
Si tratta, come è noto di una superstrada a pagamento (di cui da molte parti si è contestata l’utilità) che partendo dal casello stradale di Montecchio Maggiore dovrebbe percorrere circa 97 chilometri fino a Spresiano, in prossimità di Treviso.

Non parliamo in questa sede di tutte le irregolarità, i conflitti di interesse e le discrepanze emerse da un’opera che va a solo vantaggio di alcuni privati e a grande svantaggio per l’erario veneto. Ma ci occupiamo dell’opera sotto due aspetti che riguardano il tema in questione.

Stranamente l’opera, diversamente dalla maggior parte delle opere stradali esistenti, viene costruita “in trincea” cioè diversi metri al di sotto del livello campagna. La motivazione data dai costruttori sarebbe di ordine paesaggistico, ma i maligni sospettano che scavare lungo il percorso consente alla società di reperire preziose ghiaie (materiale indispensabile alla costruzione dei sottofondi stradali.)

 Tuttavia ammessa la buona fede paesaggistica dei costruttori, nessuno ha obiettato sul fatto che là dove le falde subiscono in maniera più incisiva l’offensiva dell’inquinamento Miteni, una ferita profonda del territorio e la costruzione di ancora più profonde barriere di calcestruzzo, potrebbero sconvolgere l’attuale quadro idrografico già fortemente compromesso con effetti imprevedibili sull’inquinamento delle falde.

Evidentemente chi ha il compito di valutare l’impatto ambientale delle grandi opere che si progettano in Veneto non è in grado di vedere le grandissime problematiche che una superstrada di quel tipo determina incrociando il territorio inquinato da Miteni, all’altezza delle ricariche di falda.

Torrente Poscola 

Ignari di tutto, i progettisti avevano previsto anche un attraversamento del torrente Poscola, direttamente inquinato da Miteni e dal depuratore di Trissino, tramite una galleria che sarebbe dovuta passare sotto il letto del torrente.

 Il progetto fu poi modificato per l’insorgere delle popolazioni locali e la evidente incompatibilità con le problematiche emerse dall’inquinamento Miteni.

La totale ignoranza del territorio, della struttura geologica dello stesso, degli eventi antropici che ne hanno alterato la conformazione da parte di chi disegna autostrade soltanto sulla carta topografica, fa sì che inopinatamente, poche centinaia di metri prima di incrociare il Poscola, in territorio confinante tra i comuni di Arzignano e Montecchio Maggiore, gli scavi autostradali hanno tagliato di netto una grande discarica abusiva (sembra risalente agli anni sessanta).
I lavori della Pedemontana incrociano una
mega discarica abusiva degli anni '60

La ditta costruttrice, seguendo la regola del rattoppo, si è limitata a elevare dei muri di contenimento in cemento, incastonati su profondi pali di sostegno che, tra l’altro, potrebbero spingere più a fondo i percolati.
La scoperta della grande discarica dimenticata non ha scomposto nessuno e tanto meno le istituzioni preposte alla tutela del territorio.
Dopo un po’ di maretta, provocata da una consigliera comunale del M5S di Montecchio Maggiore e dal movimento No PFAS della zona, la questione si è inspiegabilmente ma legalmente appianata consentendo alla ditta di proseguire il suo infausto percorso verso nuove disavventure, crolli di gallerie e manifestazioni di cittadini e agricoltori.

Ci si chiede come mai i progettisti non avevano notato la discarica, già nota al comune di Montecchio. Ci si chiede di chi sia il compito di verificare se i lavori effettuati abbiano peggiorato la situazione delle falde sottostanti. Ci si chiede in che modo vengono rilasciate impunemente le certificazioni VIA, ammesso che siano state effettivamente rilasciate.

 I contrafforti di cemento che hanno separato il tracciato della superstrada da rifiuti e percolati, hanno sigillato la questione. Nessuno sa quanto stia avvenendo dietro il sipario di cemento e quanto stia succedendo sotto il fondo stradale. Tutto ciò si chiama Veneto, la regione più cementificata d’Italia.

Contemporaneamente allo svolgersi di questi incidenti poco più in là, a poche centinaia di metri da Miteni si costruisce un grande invaso sul torrente Guà che proviene dai monti del Recoarese.
La ditta ha ottenuto regolare licenza per la costruzione due vasche di laminazione il cui scopo, a detta dei commissionari e dei costruttori, sarebbe quello di contenere eventuali piene, responsabili dell’allagamento di una piccola frazione in prossimità di Monselice a circa settanta chilometri di distanza.

Il fatto è che dopo le rotte del 1907 l’area delle cosiddette “rotte del Guà” era diventata una zona umida, ricca di ruscelli e di alberi entrata nella lista dei parchi Baden Powel e aveva sempre funzionato come bacino di espansione naturale durante le piene del torrente, senza danni per le frazioni limitrofe.
Il parco delle rotte del Guà prima della sua distruzione

Di fatto le nuove escavazioni, che abbassano di ulteriori 4 metri l’intero livello dell’area precedentemente occupata dal parco, sono realizzate in una zona in cui le risorgive emergono periodicamente sul piano campagna che risulta una decina di metri più alto del fondo del bacino.

Chi ha autorizzato l’opera non sa niente dell’inquinamento delle falde operato dalla adiacente fabbrica di perfluorati. Nessuno si è posto il problema di cosa succederà a causa di questa opera insensata, realizzata a poche centinaia di metri dalla Miteni.

Si procede a compartimenti stagni senza una minima visione di insieme e senza nessun rispetto per un territorio martoriato da una antropizzazione selvaggia e irrazionale.

La mano destra non sappia quello che fa la sinistra, soprattutto se questo può danneggiare ulteriori affari.

Proprio per ciò, chi autorizza gli scarichi dell’’A.Ri.C.A. nel Fratta – Gorzone ignora il recente monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità sui prodotti agricoli e sugli allevamenti che insistono sulla “zona rossa”.

Risulta che in varie zone del territorio indagato sono stati repertati allevamenti di maiali con livelli altissimi di contaminazione da PFAS. Lo stesso vale per uova, mais e verdure. Tuttavia nessuna misura è stata presa per impedire che tali prodotti fossero immessi nel mercato.

Eccetto che per i pesci, presenti nei fiumi e nelle rogge, che sono risultati immangiabili per gli altissimi contenuti di PFAS delle loro carni e per i quali è stato decretato un divieto di pesca, nessuna indagine è stata effettuata sulla fauna locale.

In alcune zone definite arancione (comune di Creazzo), dove alcuni privati hanno effettuato un esame chimico dei terreni agricoli, questi sono risultati letteralmente inzuppati di PFAS. Nella stessa occasione sono stati analizzati dei campioni di kiwi coltivati su questi terreni, con riscontro di livelli altissimi di contaminazione. Tuttavia ciò non toglie che questi prodotti siano finiti sui banchi del mercato.

Nel Veneto si naviga a vista.
Non è stata effettuata una mappatura completa dei pozzi privati.
Malgrado recenti delibere regionali, molto chiare in proposito, non esiste una mappatura dei terreni. Non esiste nemmeno una mappatura di tutti i prodotti agricoli e di allevamento. Non è previsto un controllo permanente veterinario per i prodotti a rischio.

Al dipartimento di prevenzione si attendono i nuovi limiti proposti dall’EFSA per la TDI e, nel frattempo, non si applica alcuna precauzione.

I cittadini non sanno più cosa mangiare e soprattutto cosa dare da mangiare e da bere ai propri bambini.

Il sindaco di Arzignano, si rifiuta di rifornire asili e mense scolastiche di acqua non contaminata ma mette i filtri nelle cosiddette casette dell’acqua.
I cittadini abitanti nelle zone arancione chiedono, inascoltati, l’estensione dei monitoraggi sanitari, attualmente riservati solo agli abitanti della zona rossa.


Il popolo dei PFAS, stimato in 350.000 persone, ma sicuramente molto più numeroso in considerazione di siti contaminati inesplorati e della mancanza di informazione sulla contaminazione umana nelle altre aree inquinate, chiede che non ci siano discriminazioni di trattamento, tra gli abitanti delle varie zone contaminate.

Un momento dell'incontro della delegazione NO PFAS col ministro Sergio Costa
Chiede che si provveda immediatamente al sequestro della causa prima della contaminazione, cioè della Miteni di Trissino, chiede che siano presi provvedimenti per tutte le altre industrie inquinanti che rilasciano non solo PFAS nelle acque del Veneto, a partire dal distretto conciario di Arzignano.

In merito a quest’ultimo punto è necessario che parta al più presto il nuovo patto decennale Stato-Regione per la bonifica del Fratta Gorzone.


TRENT'ANNI DI INQUINAMENTO


Trent’anni di inquinamento attraverso il tubo A.Ri.C.A. impongono la fine degli sversamenti dei reflui industriali nei fiumi e nelle rogge con la realizzazione di sistemi di depurazione industriale a circuito chiuso nei depuratori.

 È necessaria la separazione delle fognature civili da quelle industriali, il recupero dei fanghi derivati dal pretrattamento delle pelli (scarnificazione e pelo) che si effettua prima della concia vera e propria, che deve avvenire con l’uso di acqua filtrata priva di PFAS per consentirne un uso come materia seconda riccamente proteica.

Chiedono interventi sulla linea dei prodotti usati per la produzione conciaria, attraverso l’applicazione stretta del REACH e l’adesione al progetto di Greenpeace “DETOX”; chiedono, anche attraverso il potenziamento del locale istituto conciario, la promozione di una ricerca finalizzata ad una produzione industriale compatibile con le esigenze dell’ambiente.



Le richieste dei cittadini, seppur onerose, possono essere realizzate con enorme vantaggio non solo ambientale ma anche sanitario ed economico per i produttori (agricoltori e allevatori) che, a valle di Miteni e delle industrie conciarie, non possono più sostenere il danno arrecato dalla contaminazione delle acque da parte delle industrie a monte.

Chi produce non può addossare alla comunità il costo e il compito di risolvere i problemi ambientali da lui creati. Se una determinata produzione non è compatibile con l’ambiente e con la salute dei cittadini va cambiata o esclusa perché non tutto si può fare e non a tutto ci sono risposte praticabili.

È bene che chi fino ad ora ha governato il Veneto, usando due pesi e due misure, tenga conto del fatto che industriali, cittadini, agricoltori, allevatori, fanno parte di una umanità in cui tutti hanno uguali diritti e meritano uguale rispetto. Il futuro dei nostri figli è strettamente legato a questo principio che è e deve essere alla base di ogni democrazia compiuta.

Per l’associazione CiLLSA e il Comitato Zero PFAS Agno Chiampo

Giovanni Fazio

Ps:
 A nome di CiLLSA e del Comiatato Zero PFAS Agno Chiampo, ringraziamo la consigliera Sonia Perenzoni e il gruppo veneto del Movimento Cinque Stelle per avere realizzato l’incontro del Ministro Sergio Costa con tutti gli attori del Movimento No PFAS presenti nel Veneto. Si è trattato di un confronto molto costruttivo e utile alla causa della bonifica del nostro territorio ma anche ad un cambio di rotta che ci porti fuori dalle sabbie mobili di una politica veneta che fino ad ora non ha voluto o non è stata capace di bloccare gli inquinatori né di proteggere i cittadini da acque e cibi inquinati.



martedì 4 settembre 2018

ABBASSATA DI 1500 VOLTE LA QUANTITA' DI PFAS AMMESSA NELL'ACQUA E NEI CIBI



Nel 38° simposio internazionale sui contaminanti organici alogenati, che si è appena concluso a Cracovia, nella specifica sessione dedicata alla valutazione del rischio da parte di Efsa (Ente europeo per la prevenzione alimentare), sono stati illustrati alla comunità scientifica i nuovi valori guida per l’esposizione a Pfos, Pfoa e a diossine e sostanze diossino-simili.


In particolare per il Pfoa è stato calcolato un livello nel siero di 10 ng/ml, corrispondente ad una esposizione di 0.8 ng pfoa per kg di peso corporeo per giorno, ritenuto di riferimento per l’innalzamento del colesterolo totale. 

Da qui un valore guida tollerabile su base settimanale di 6 ng/kg , che se confrontato con quello proposto nel 2008 da Efsa, risulta inferiore di più di 1500 volte.

Di sicuro questa opinione in primis impatterà sulla proposta di livelli guida per Pfas nelle acque potabili, in discussione in settembre e su alcuni requisiti ambientali dei terreni e delle acque in cui si svolgono attività per la produzione di cibo, inclusa caccia e pesca.

I valori proposti da EFSA fanno giustizia di tutti i limiti di tolleranza farlocchi inventati e ripetutamente modificati, per l'acqua e per gli alimenti in questi ultimi anni.

Adesso inizia la guerra da parte delle multinazionali dei PFAS e della diossina finalizzata a vedere innalzati i limiti di tolleranza.
Speriamo che almeno questa volta si riesca a far valere il diritto alla salute su quello al profitto.


La TDI, detta in italiano "Dose Giornaliera accettabile (di tossico)" non ha alcuna base scientifica e le sostanze tossiche, in quanto tali, e soprattutto se con caratteristiche di lunga permanenza nell'ambiente e di interferenza endocrina, come appunto tutti i PFAS( e non solo PFOA e PFOS), NON DEVONO ESSERE CONTENUTE A NESSUN TITOLO E IN NESSUNA MISURA NEGLI ALIMENTI E NELL'ACQUA.

Ciò premesso, la determinazione al ribasso di nuovi standard di TDI fa giustizia di tutte le assicurazioni e garanzie con cui i politici del Veneto e l'ISS  (Istituto Superiore di Sanità)  ci hanno fatto ingurgitare ettolitri di PFAS, assicurandoci della assoluta assenza di rischio.

I nostri bambini e le donne in gravidanza sono i soggetti più esposti all'aggressione degli interferenti endocrini e dei cancerogeni presenti nell'acqua di Arzignano e dei comuni vicini.

Il sindaco Giorgio Gentilin si è rifiutato categoricamente di distribuire acqua non contaminata ai bambini degli asili e delle mense scolastiche, come da noi (CiLLSA e COMITATO ZERO PFAS) più volte richiesto.

Il dipartimento di prevenzione della ULSS 8 non ha impedito la commercializzazione di alimenti prodotti nella zona rossa con livelli astronomici di contaminazione da parte di tutti i PFAS.

Omissione gravissima.

I cittadini, ignari, comprano nei supermercati questi prodotti che dovrebbero essere sequestrati.

Il dipartimento di prevenzione regionale ha agito di conserva e si è rifiutato di consegnare i documenti sulla geo referenziazione relativi al monitoraggio sugli alimenti effettuato nella zona rossa.
(Significa che, non solo hanno permesso la commercializzazione di alimenti fortemente contaminati da PFAS, ma si sono perfino rifiutati di indicare in quali zone del territorio veneto tali alimenti erano stati reperiti). Giudicate voi.


Questo è il SISTEMA VENETO, quello che ha punito i risparmiatori delle banche fraudolenti azzerando i risparmi di una vita a centinaia di migliaia di cittadini, il sistema che non ha attuato un minimo di prevenzione per impedire la diffusione dei PFAS, che ha autorizzato, ancora nel 2014, la Miteni a lavorare residui tossici olandesi per ricavare un PFAS di nome Gen X che si trova già nelle nostre falde; un sistema che ha sperperato miliardi nella costruzione di ospedali, anche là dove non ce n'era bisogno, con il project financing, sistema che ha arricchito privati senza scrupoli a danno dell'erario pubblico; con lo stesso criterio sta costruendo una superstrada deleteria con i nostri soldi per regalare profitti miliardari a privati inadempienti.

Non è possibile comprendere quanto sta avvenendo in questa regione riguardo ad una catastrofe ambientale di immani proporzioni che coinvolge più di 350.000 persone se non si inserisce questo fenomeno in un quadro generale di malversazione, di omissioni colpevoli da parte di un sistema di governo  che privilegia sporchi interessi privati a danno della salute e della vita dei cittadini; un sistema che fa uso di campagne stampa per trasformare i colpevoli, responsabili del disastro, in eroi di un risanamento che non c'è; un sistema dove regnano palesi conflitti di interesse e regimi commissariali che servono a bypassare impunemente le regole previste dalla legge; un sistema che regolarmente estromette i cittadini da ogni possibile controllo. 

Non si comprende pertanto il senso della nostra lotta per la salute di tutti se non la si inserisce in una più grande campagna per il ripristino delle regole della democrazia, della legalità e della trasparenza amministrativa contro il groviglio di interessi sporchi che fanno capo, guarda caso, sempre alle stesse persone e ai loro sostenitori.

I nuovi limiti della TDI dell’EFSA che dovrebbero abbassare di 1500 volte la dose di PFAS tollerata attualmente nell'acqua e negli alimenti, se non sarà intercettata e modificata dalle lobby che di fatto governano una Europa nelle mani dei vampiri, faranno giustizia del modo in cui è stata gestita la prevenzione nel Veneto. 

Dedico questo post al mio nipotino Ernesto (3 anni appena compiuti) che si accinge, con ingenua fiducia nelle istituzioni, ad entrare nella scuola dell’infanzia e per il quale pretendo acqua e cibo non contaminati da PFAS!

Giovanni Fazio