di Marco Bersani*
*articolo pubblicato su il manifesto del 29 aprile 2023 per la rubrica Nuova finanza pubblica.
Era il 23
marzo 2020 quando l’Unione Europea, investita dalla pandemia, prese la
decisione di sospendere il patto di stabilità per il
biennio 2020-2021, prorogandola a più riprese fino a tutto il 2023.
C’era voluto
un microscopico organismo, che non è neppure un essere vivente -Covid19- per
sciogliere come neve al sole l’inossidabile impalcatura di Maastricht a cui per
quasi trenta anni tutto era stato sacrificato: diritti del lavoro, beni comuni,
servizi pubblici e democrazia.
Ciò è stato
possibile perché la pandemia aveva reso evidente la drammatica situazione
sanitaria e sociale e aveva costretto Stati e Ue, in dichiarato affanno, a
rivedere i principi liberisti per mettere in campo risorse straordinarie e far
fronte ai drammatici effetti dell’emergenza venutasi a determinare.
“Niente sarà
più come prima” dicevano allora, e tutti ci saremmo immaginati che, pur non essendoci
alcun Aristotele al governo, stesse affermandosi il sillogismo per cui “se
per salvare le persone sospendo tutti i vincoli finanziari e monetaristi, se ne
deduce che quei vincoli sono contro la vita e la cura delle persone”.
Ma poiché
nessuna logica può scalfire il dogma, eccoci di nuovo a fare i conti (nel senso
letterale) con il prossimo ripristino del patto di stabilità. Nella
nuova formulazione ciascun paese sarà chiamato a preparare un piano di
risanamento del debito basato sulla spesa pubblica netta. Per i paesi con un
debito elevato, i piani nazionali, della durata di quattro anni estensibile a
sette, dovranno garantire un calo dello stesso debito pubblico per almeno dieci
anni. Dovrà essere attuato un aggiustamento di bilancio minimo dello 0,5% del
Pil all’anno fino a quando il deficit rimarrà superiore al 3,0% del Pil; per
l’Italia questo significa 15 mld/anno nell’ipotesi dei quattro anni o 8
mld/anno nell’ipotesi settennale.
Ora è chiaro
come quel “niente sarà più come prima”, lungi dall’essere un annuncio del
cambiamento possibile, fosse in realtà una minaccia, come dimostrato dal
transito senza soluzione di continuità da una pandemia ad una guerra.
D’altronde, mentre si preparano nuovi tagli draconiani alla spesa pubblica, gli
investimenti nelle armi hanno raggiunto i livelli dei tempi della Guerra
Fredda, rendendo chiaro come la nuova austerità servirà a finanziare
la guerra.
Così, mentre
la fascia di povertà si espande a vista d’occhio e gli effetti della crisi
eco-climatica sono ormai drammatica quotidianità, riparte la
narrazione artificiale del debito pubblico come problema assoluto
e ci viene richiesta una nuova rassegnazione (ripresa e resilienza, of
course).
Anche la nuova
austerità avrà il suo target nei Comuni e nelle comunità
territoriali, i quali, pur contribuendo in misura irrisoria al
debito pubblico (1,5% in ulteriore diminuzione), hanno il difetto di essere
titolari della ricchezza collettiva di questo paese, fatta di territorio, beni
comuni, servizi pubblici e patrimonio pubblico, preda da tempo dei grandi
interessi finanziari.
Di fronte a
questo quadro, diviene ancor più importante partecipare alla campagna Riprendiamoci
il Comune (www.riprendiamociilcomune.it) che dal basso
prova a invertire la rotta, ridisegnando il profilo dei Comuni dentro una nuova
funzione pubblica, sociale, ecologica e relazionale e rimettendo nelle mani
delle comunità territoriali i beni comuni e le ingentissime risorse (280
miliardi) del risparmio postale di Cassa Depositi e Prestiti.
Una
rivoluzione dal basso oggi per permettere domani di far ricordare
Maastricht come vivace città universitaria dall’architettura medievale invece
che come il simbolo perenne dell’incubo liberista.
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Prima colonna: ricavi dall'innalzamento dell'età pensionabile; seconda colonna ricavi dai tagli alla sanità, nella terza guadagni derivati dal blocco degli aumenti salariali; nella quarta si vedono i ricavi derivati dalla riduzione della spesa per la sicurezza nel lavoro; infine nell'ultima colonna il ricavo derivato dalla riduzione della cassa integrazione e diminuzione del sostegno agli invalidi.
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