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domenica 5 maggio 2019

DURA RISPOSTA ISDE ALLE AFFERMAZIONI DEL DOTT. DELL'ACQUA



Dottor Dell’Acqua, lo sa che all’ARPAV lavora un professionista ex Miteni? È credibile che non sapesse cosa si produceva nella sua ex azienda?

L’intervista rilasciata dal dottor Nicola Dell’Acqua al Giornale di Vicenza del 28/4/2019 assolve essenzialmente la sua agenzia e altre istituzioni regionali che, a suo dire, si sarebbero comportate in modo egregio nella vicenda PFAS in Veneto.

Non la pensano così i carabinieri del NOE che, come è noto, hanno ipotizzato pesanti responsabilità proprio dell’ARPAV e dello SPISAL di Arzignano, fra gli altri, i quali non avrebbero fatto nulla per porre fine al disastro ambientale, pur essendone a conoscenza da anni.
PORTE GIREVOLI

Porte girevoli fra Miteni e ARPAV?

Fra le affermazioni autocelebrative mi ha colpito il passaggio relativo all’ assegnazione dei compiti ai vari attori.

 Secondo il pensiero di Dell’Acqua la responsabilità sarebbe di ISPRA, CNR, ISS che sono pagati da noi pe fare ricerca. 

Afferma il Dell’Acqua:
“Sono loro che devono dire al povero operatore Arpav che esce sul territorio quali sono le verifiche che deve fare. Come fai a dirgli dieci anni dopo ‘dovevi fare attenzione ai Pfas oltre che a cromo, metalli e altro?”

L’ARPAV, è in particolare il Dipartimento di Vicenza, non avevano bisogno di farsi dire da nessun altro cosa andare a cercare fra le deiezioni di un’azienda insalubre di classe 1 (il dottor Dell’Acqua l’ha scoperta solo ora la natura dell’azienda?).
  
Bastava chiederlo ad un suo alto dirigente che, come risulta dal curriculum liberamente consultabile dal sito dell’ARPAV, lavorò “da marzo 1987 a maggio 1990, in qualità di Addetto al Laboratorio Ricerca e Sviluppo. – Rimar Chimica S.p.A. poi MITENI S.p.A. Trissino (VI). Dopodiché, dal 1992 al 1999 ricoprì diversi incarichi presso la ASL di Vicenza per poi passare all’ARPAV, dove la vora tuttora.”

Sicuramente non c’è nulla di illegale a cambiare lavoro e passare da un’azienda privata al settore pubblico. 

Per carità, probabilmente si tratta di una pura coincidenza, ma questa vicenda potrebbe rappresentare un caso paradigmatico di “porte girevoli”.
 
Secondo Wikipedia “La locuzione porta girevole, nella terminologia della politica, individua il movimento continuo di persone divise tra attività politica (ad esempio come legislatori), attività come funzionari in enti di regolamentazione, attività di lobbying per conto di gruppi industriali, e attività economica nelle stesse industrie coinvolte.

 Il termine è mutuato dall’inglese revolving door/doors (porta girevole/porte girevoli), con cui si indica tale pratica nel sistema della politica statunitense. 

In altre parole, avviene sempre più spesso che un dirigente da un’azienda privata passi al servizio direttamente di un’agenzia pubblica fra i cui compiti ci sono anche quelli di controllo dell’azienda di provenienza del prescelto.
  
Anche nel caso dei PFAS vi sono stati in USA casi clamorosi di alti dirigenti passati dalla 3M o dalla Dupont alle agenzie ambientali dello stato del Minnesota o dell’EPA rispettivamente, dove si sono caratterizzati per ostacolare le ricerche sui siti contaminati o il contrasto all’approvazione di regolamenti o leggi che avrebbero potuto danneggiare l’azienda madre.

Non è dato sapere se il dirigente vicentino si sia occupato di PFAS durante la sua permanenza (che continua) all’ARPAV. Può darsi che i suoi incarichi non prevedessero né prevedano attività inerenti al controllo degli scarichi delle aziende chimiche. E anche se nell’assolvimento del suo dovere si sia occupato di PFAS, questo dirigente sicuramente si sarò comportato in modo irreprensibile.

A mio parere l’ARPAV dovrebbe chiarire il ruolo avuto da questo suo dirigente nella gestione del problema PFAS. Potrebbe configurarsi un conflitto di interessi di non trascurabile importanza. Dove conflitto di interesse non deve esser e inteso per forza come qualcosa di contrario alla legge.

E l’ARPAV (e tutte le altre istituzioni locali e nazionali), dovrebbero anche rendere pubbliche le comunicazioni che la Miteni avrebbe fatto (stando a quanto dichiarato più volte dal suo amministratore delegato Nardone) sulle sostanze prodotte dalla Miteni, loro quantità e destino degli scarti di produzione.
E che l’ARPAV sapesse tutto ben da prima del 2013 lo conferma anche il dottor Polesello, dell’IRSA-CNR, che nella sua audizione presso la Commissione bicamerale sulle ecomafie del 25 maggio 2016 dice chiaramente che, assieme ad ARPA, i controlli sulla Miteni di Trissino cominciarono già nel 2011:

“abbiamo saputo che lo PFOA, utilizzato nel processo di polimerizzazione per produrre il teflon, veniva prodotto da una ditta non italiana, in quel periodo proprietà di giapponesi: la Mitsubishi, o meglio, la Miteni, situata a Trissino.
  Abbiamo ottenuto da ARPA l’autorizzazione a entrare e, accompagnati da ARPA, nel 2011 siamo entrati nella fabbrica.
Abbiamo campionato gli scarichi dei depuratori e tutti i corpi idrici intorno.
 In quel caso non avevamo competenza sull’acqua potabile; la richiesta specifica del Ministero riguardava i corpi idrici superficiali. Abbiamo quindi svolto una piccola indagine dalla quale risultava che la Miteni era una sorgente di queste sostanze perché le produceva, non solo del PFOA ma anche di un’altra sostanza a catena più corta, il perfluorobutansolfonico (PFBS), andato a sostituire il famoso PFOS, l’altra sostanza tossica di cui l’Unione europea aveva già ristretto l’uso e la produzione. Tutto questo è successo intorno al 2011.”
La Regione e l’ARPAV hanno sempre dichiarato di aver saputo dei PFAS soltanto nella primavera del 2013, cosa probabilmente non vera, stando alle dichiarazioni del dottor Polesello.

Ma quanti scheletri ci sono nell’armadio delle agenzie vicentine e veneziane?

Dott. Vincenzo Cordiano
Presidente regionale ISDE Veneto

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